L' incontro

L’incontro

Mi chiamo Salvatore , ma tutti mi hanno sempre chiamato Totò. Ho quarantacinque anni, e porto con me l’anima della mia Sicilia ovunque vada. Fiero, silenzioso, presente. La mia voce pesa, perché ho imparato a usarla solo quando serve. E quando parlo, si sente chi sono.

Lavoro in un ruolo istituzionale importante. Una posizione pubblica, seria, rispettata. Mia moglie, Rosalia – Lia, per chi la conosce bene – è come me. Donna di potere, brillante, bellissima. Una di quelle che non abbassa mai lo sguardo. Quando entra in una stanza, l’aria cambia.

Viviamo in Trentino-Alto Adige da quasi due anni. Un piccolo paese, ordinato, silenzioso, che sembra uscito da un presepe invernale. La gente ci guarda con rispetto, ma anche con quella tipica distanza che il Nord riserva a chi viene dal Sud. Poco importa: noi ci bastiamo.

O almeno, ci bastavamo.

Un mese fa, mentre facevamo l’amore, Lia mi sussurrò qualcosa all’orecchio. Qualcosa che cambiò tutto.

“E se trovassimo una donna? Una complice. Una che non sappia nemmeno di volerlo… almeno all’inizio.”
Rimasi in silenzio. Non per disapprovazione, ma per l’effetto che quelle parole ebbero su di me. Lei lo capì subito. Mi conosce troppo bene.

“Ti piacerebbe, vero?” mi chiese, sfiorandomi il petto con le unghie.
“Vederla lì… con noi. Toccata. Accolta. Amata.”
Fu in quel momento che la fantasia prese forma. E divenne progetto.
Qualche giorno dopo, Lia mi chiese di accompagnarla all’ufficio comunale del paese. Doveva sistemare alcune pratiche legate a una commissione pubblica. Nulla di strano. Ma quando mi guardò nello specchio prima di uscire, con quel sorriso piegato da un solo lato, capii che c’era dell’altro.
Entrammo nel piccolo edificio in pietra e legno. Profumo di caffè, documenti, neve portata dentro dalle scarpe. E poi… lei.
Martina.
Era dietro un vetro, in piedi, alle prese con una pila di carte. Avrà avuto venticinque, massimo ventisei anni. Capelli castano chiaro raccolti in una coda, un viso pulito, fresco, da ragazza semplice. Ma era il suo corpo che rubava la scena: seno abbondante, tondo, gonfio sotto una camicetta chiaramente troppo stretta. Fianchi larghi, labbra piene. E uno sguardo che sembrava chiedere qualcosa, senza saperlo.

Quando ci vide, sorrise. Un sorriso timido, gentile.
“Buongiorno…”
“Buongiorno a te,” disse Lia con voce bassa. Poi aggiunse: “Martina, vero?”
Lei annuì, sorpresa.
“Sei nuova qui?”
“Da poco… un anno,” rispose.
“Ti piace il paese?”
“Molto. È tranquillo. A volte anche troppo,” disse, ridendo.
Quel “troppo” lo sentii vibrare nella stanza. Lia se ne accorse.
“A volte la tranquillità va spezzata, no?” disse, guardandola negli occhi. Martina arrossì.
Parlai poco. Mi limitai a osservarla. Ogni sua reazione. Ogni sussulto. Il modo in cui abbassava lo sguardo quando incrociava il mio. Il modo in cui Lia si avvicinava, la toccava per sbaglio mentre prendeva un foglio, e Martina non si spostava.

“Sai, ci piace conoscere le persone con cui lavoriamo,” disse Lia mentre firmava un modulo. “Magari uno di questi giorni vieni da noi a cena. Niente di formale. Un po’ di cucina siciliana, un po’ di vino. Ti va?”
Martina esitò. Poi sorrise.
“Mi piacerebbe, grazie.”
Appena uscimmo, la neve ci avvolse.
Lia si strinse a me.
“È lei,” mi sussurrò. “Lo sai anche tu.”
Ed era vero. Lo sapevo. Lo sentivo in ogni fibra del corpo.
Martina era l’innocenza. Il desiderio in potenza. Il frutto ancora acerbo… ma pronto a cedere, se colto con dolcezza.
E noi due, insieme, stavamo per farla sbocciare.